neural online


 
 
 > News archive  > Neural Magazine  > Neural Station  
 > emusic  > new media art  > hacktivism  
.emusic

04.03.04
Verso il suono contemporaneo.
Verso il suono contemporaneo è un 'intervento tenuto da Aurelio Cianciotta durante il seminario 'Il sex-appeal dell'inorganico, seminario sulla musica elettronica' che attraversa le trame della dj culture dai suoi albori.

'In un breve lasso di tempo la musica è diventata oggetto di pubblica discussione e parte della cultura generale'. Questo non è l'inizio di una garbata introduzione al mio intervento, è già una citazione, non è estrapolata da un articolo di una rivista di questa settimana o dello scorso anno, si riferisce, invece, alla situazione musicale agli inizi dell'800 in un testo di Thomas Nipperdey, storico tedesco. Questo, brevemente, per cercare di inquadrare come l'interesse per certe tematiche, legate alla produzione musicale ed ai suoi immaginari, non sia affatto cosa nuova. La curiosità per la musica, spesse volte superficiale ed esagerata, non è fenomeno esclusivamente dei nostri tempi, al contrario, da sempre, in tutte le società occidentali (e non solo) sulla musica si discute, ci si appassiona, si litiga e si elaborano teorie. Nel 1911 Werner Sombart sosteneva, ad esempio, che la grande produzione musicale dipendeva dall'ingente quantità di denaro in circolazione e che questo portava ad un appiattimento, a una produzione d'intrattenimento o ad un'eccessiva offerta concorrenziale con sempre nuovi incentivi, al di là della vera arte. Nel 1911 già ci si poneva il problema d'alcune forme dell'espressione musicale che sarebbero state inautentiche, non vera arte, perché frutto di una produzione troppo standardizzata, nate dalla gran richiesta d'intrattenimento del pubblico e non da una spontanea ispirazione. Quelle forme standardizzate, inautentiche, sarebbero diventate più tardi i capolavori, le opere fondamentali della cultura musicale borghese. Questo discorso sulla produzione musicale inautentica assomiglia cento anni dopo ad uno dei tanti discorsi sull'appiattimento dovuto all'evoluzione e all'uso massiccio nella musica delle tecnologie digitali: quelle tecnologie che secondo alcuni sottrarrebbero anima, calore, naturalità. Come se i violini, i violoncelli, o qualsiasi altro strumento tradizionale siano cresciuti in passato in maniera spontanea sugli alberi (e non fossero invece anch'essi frutto di tecniche molto ricercate, pensiamo al lavoro, alla somma di conoscenze, indispensabili per la produzione di un buon violino). Come se l'abilità o meno di un musicista tradizionale, la sua abilità tecnica, non fosse, appunto, pure questa una tecnica, frutto comunemente di una scuola e di una tradizione ben precise. Se la musica digitale, elettronica, soprattutto quella dance, ancora, è spesso percepita come posticcia, artificiale, allo stesso modo, al di fuori degli ambienti vicini alle dinamiche delle nuove sonorità, la figura del dj, difficilmente, è percepita nei suoi aspetti creativi e produttivi: i compositori tradizionali, apparterrebbero ad un livello più alto dell'espressione artistica, in quanto autori originali di un'idea e persino i semplici musicisti sarebbero maggiormente a contatto con la vera musica perché finanche nell'esecuzione è possibile infondere uno spirito particolare attraverso la propria soggettiva interpretazione. Credo che l'aspetto che non sia percepito dai profani sia proprio la caratteristica più forte ed interessante dell'attività del djing: la manipolazione creativa a partire da un catalogo sterminato di possibilità. Soprattutto per gran parte del pubblico adulto, consumatori passivi e involontari delle nuove sonorità, che in ogni caso sono dappertutto, è veramente difficile decifrare questa figura oltre lo stereotipo d'animatore di party o di mero esecutore di brani altrui. Si domanderanno mai perché quelle musiche della pubblicità sono fatte in quel modo? Perché improvvisamente certi suoni iniziano a pervadere le loro esistenze e altri scompaiono? La resistenza a cogliere e a riconoscere gli aspetti autoriali della professione del dj perdura per molti, a volte anche negli stessi ambiti specificatamente musicali. E' difficile cogliere l'essenza di questa relativamente nuova forma d'espressione come un tramite fra la conoscenza musicale, la contemporaneità, le pulsioni al nuovo in strati consistenti di pubblico attivo, mediate spesso con fatica attraverso le controverse esigenze dei mercati discografici. Alcuni dj cercano di compensare questo limite nella percezione comune, sottolineando di continuo proprio gli aspetti produttivi e compositivi della loro professione, spingendo il più possibile sempre sui versanti che avvicinano la loro esperienza a quella dei musicisti, anzi meglio, a quella dei musicisti-compositori. Allo stesso tempo si assiste ad un altro fenomeno curioso: molti musicisti si orientano verso un approccio da disc jockey, oppure, smaccatamente lo simulano. Le ragioni sono facilmente intuibili: la natura del djing, la sua flessibilità, il non aver bisogno di grandissimi e costosi apparati, permette più facilmente di diffondere con successo la propria visione musicale. E' stata la fortuna di molte subculture, come quella reggae o hip hop che proprio grazie ai dee jay si sono diffuse massicciamente e in breve tempo. La mancanza dello status d'autore non ha impedito però che la figura del dj sia diventata oggi di estrema importanza, ma questo non perché il problema di una non riconosciuta autorialità di quel ruolo sia stato risolto. In molti casi, anche nel mercato, si è preferito cavalcare l'aspetto mediatico, insistere maggiormente sugli aspetti di comunicazione che avvicinavano il dj ad una pop star, evitando, tutti, accuratamente, di porsi o sottolineare le questioni reali. Per mia naturale formazione, sono la persona meno interessata, a riproporre, o rivendicare la necessità di avere degli autori, anche se si tratta, nel nostro caso, di un nuovo tipo d'autori, su cui sarebbe interessante compiere dovuti approfondimenti. A me sembra, semplificando la questione, che l'evoluzione dei saperi, delle tecniche e delle tecnologie, faccia nascere nuove dinamiche, porti all'uso di sempre nuovi strumenti e all'elaborazione di nuove strategie.

Può essere interessante, in un incontro come questo, tracciare brevemente le coordinate e ricostruire come avviene il passaggio che porta il dj sempre più vicino al ruolo d'artista elettronico, sperimentatore originale di sonorità e culture molteplici. Prima di avventurarci in una cronistoria dell'evoluzione degli ultimi anni (per ovvie ragioni non potrà che essere molto sommaria) vorrei menzionare in relazione a questi temi un altro aspetto, cruciale, secondo me, anche nel rapporto con l'avvento delle nuove tecnologie. Vi sono importanti questioni non ancora definitivamente risolte criticamente, nella musica e in altri ambiti artistici, in relazione a tutto quello che ruota attorno al concetto di originalità, quando ormai si è già superata la fase della riproducibilità tecnica dell'opera e si è entrati appieno nell'epoca della manipolazione elettronica totale. Come definire le nuove forme estetiche, ottenute usando le innumerevoli tecniche di elaborazione digitale, oggi consuete in molti campi artistici? Quando ad esempio un musicista, come oggi è assolutamente normale che sia, usa campioni sonori, librerie di suoni già confezionati, per produrre nuova musica, oppure usa particolari software e plug-in per trasformare frammenti o parti estratte da produzioni altrui, che tipo di operazione compie rispetto alla tradizionale nozione di opera originale? Quando un dj fa un remix di un brano, quella è una nuova opera? Un prodotto originale dell'ingegno e delle conoscenze personali? Concettualmente, con quale nozione di opera questo ha a che vedere? Non entra forse in crisi di fronte questi nuovi procedimenti, l'idea stessa di opera e di lavoro artistico creativo per come sono comunemente intesi? Lascio alle vostre riflessioni questi interrogativi e preferisco tornare sui più facili sentieri di come sia avvenuto compiutamente questo passaggio produttivo indotto dal digitale nella musica d'oggi.

Come nasce la cultura del djing? In ogni ricostruzione, le storie si accavallano, arricchendosi molto spesso di elementi ulteriori, possiamo parlare di narrazioni diverse, più o meno condivise, che assumono caratteristiche differenti a seconda delle tribù di appartenenza che le proferiscono. In questo senso, con efficacia esprime i dubbi insiti in ogni interpretazione univoca, il giornalista musicale Greil Marcus nel suo 'Tracce di rossetto' affermando che 'il problema delle radici nella cultura è controverso. Ogni manifestazione nuova' dice 'riscrive il passato, trasforma vecchi criminali in nuovi eroi, vecchi eroi in coloro che non sarebbero dovuti mai nascere e nuovi personaggi vanno a frugare nel passato in cerca di predecessori, perché le radici sono legittime e l'attualità dubbia'. La figura del dj nasce principalmente dall'interazione negli anni cinquanta tra l'industria discografica e il nuovo media radiofonico. Sin dagli inizi il dj diventerà il tramite diretto e privilegiato, fra mercato e consumatori, il primo a venire in possesso delle nuove uscite e il primo ad avere contatto diretto con il pubblico. Il dj è quello che da sempre ascolta più musica di tutti, sicuramente molta più, sia degli stessi musicisti che dei compositori.
Una piccola divagazione. Oggigiorno, negli ambiti produttivi musicali, sono in molti a ritenere che l'approccio da musicista sia proprio quello che frena maggiormente la creatività, perché, se si seguono le stesse regole, si finisce per fare cose scontate. I dj, da sempre, per attitudine, ascoltano materiali anche molto eterogenei, intuendo prima di altri possibilità di contaminazione fra gli stili e nuove soluzioni di suoni. Ma torniamo alla nostra cronistoria sull'evoluzione di questa figura. Tutti gli anni sessanta sono stati dominati dal rock dove l'enfasi era focalizzata maggiormente sull'idea di live, ma allo stesso tempo a metà degli anni sessanta a New York iniziarono ad apparire le prime discoteche. In quel periodo c'era un estremo bisogno di cose nuove, lo stile suburbano legato ai valori formali degli anni cinquanta entrava in crisi, incominciava a formarsi una scena multiforme. Nella frenesia di un'agiata vita notturna rinata diventava possibile passare da un twist-party da Ondine ad una sequenza di balli sfrenati al Dom in St. Mark Place, un posto prima di allora frequentato solamente da gente di colore. Una sorta di primordi del nightclubbing: contemporaneamente ai primi vagiti della pop art, una generazione iniziava a sperimentare accelerazioni mentali e nuove ventate psichedeliche. Agli inizi degli anni '70 gran parte di quella eccitazione era già terminata, la nostalgia e il ritorno all'ordine prendevano di nuovo il sopravvento. Citando ancora Greil Marcus 'La corrente principale del rock'n'roll, che nel 1975 era praticamente tutto bianco e borghese, continuò a pizzicare le sue corde con ritmi passivamente conformi. Avventura e rischio erano state parole d'ordine, poi, parole ipocrite, in un periodo diventato esso stesso ipocrita: gli anni sessanta. Poi le morti, i collassi e gli sfiancamenti che accompagnarono le lotte e i tentativi di quell'epoca, furono trasformati nella parola d'ordine ipocrita degli anni settanta: 'sopravvivenza'. Unica eccezione di quel periodo in quanto a radicalità è la musica nera, il funk di James Brown e Curtis Mayfield, le rime attonite di Gil Scott Heron, le scarne sincopi del jazz più anticonformista. Al centro di quella scena c'erano ancora i musicisti, autori a tutti gli effetti, con tutta un'abusata aura però d'ispirato genio maledetto che non poteva reggere credibilmente all'infinito. In alcune parti del mondo, sono anni politicamente impegnati, in Italia ad esempio, ma musicalmente, rispetto alle evoluzioni importanti, dalla metà degli anni settanta, per un po' di tempo, ci saranno soltanto anni di grande appiattimento. A partire dagli Stati Uniti e a macchia d'olio in tutto il mondo si affermerà il fenomeno della disco che attingerà anch'esso alla musica nera, fondamentalmente dalla tradizione del rhythm'n'blues e del soul.
Le discoteche diventeranno i centri di diffusione maggiore di queste nuove sonorità, nonostante ciò, escludendo pochi leggendari personaggi, la figura del dj non è ancora così importante, se messa in relazione all'enorme portata e all'estremo successo del fenomeno. Nel film che consacrerà quell' epopea La febbre del Sabato Sera non a caso sarà un ballerino, Tony Manero-Johnn Travolta, ad essere il protagonista. Altre erano le star del tempo. Bisogna arrivare al 1977 prima di registrare altri cambiamenti epocali. L'esplosione intensa del punk in Inghilterra sarà chiaramente il fenomeno culturale che azzererà gli antecedenti, diventando il modello di tabula rasa per eccellenza di tutti i movimenti giovanili. Nonostante tutto, proprio in quegli anni, nascostamente, da qualche altra parte, qualcosa già ribolliva nel confuso calderone che darà vita alla musica elettronica così come oggi noi la conosciamo. Un breve passo indietro: Autobahn, prima uscita dei Kraftwerk è del 1974, al tempo fu catalogata come 'conceptual rock', alla stessa stregua dei Pink Floyd o dei King Crimson, il loro secondo lavoro, Trans-Europ Express, è invece proprio del 1977. L'influenza che i Kraftwerk, Ralf Hutter e Florian Schneider, due studenti di teoria musicale al Conservatorio di Dusseldorf, esercitarono oltre Europa, non fu immediatamente percepibile, solo alcuni di quelli che sarebbero diventati presto i pionieri dell'house, a Chicago e a Detroit, immediatamente metabolizzarono la portata di quei nuovi suoni sintetici, quella stessa lezione ispirò anche un dj nero di New York, conosciuto come Afrika Baambaata, insieme ad un produttore bianco di grande valore, Arthur Baker: un nuovo genere chiamato electro, contrazione di electronic funk, presto sarebbe nato da quelle intuizioni, dando vita a sua volta a influenze diverse. Contemporaneamente a quelle contaminazioni, da quella stessa energia e dagli stessi ghetti urbani nasce il primo hip hop, ricordiamo personaggi come i Soul Sonic Force, Kurtis Blow, i Sugarill Gang, la scena attorno il graffitismo. Tutto inizierà da allora a muoversi ad una velocità pazzesca e prima impensabile. In quegli anni, nelle dancehall dei ghetti neri, si assisterà ad un nuovo fenomeno, che sarà fondamentale per tutte le tecniche di djing e di produzione musicale contemporanee: i piatti dei giradischi ed il mixer inizieranno ad essere usati, non più, limitatamente, come un semplici mezzi di diffusione meccanica, ma creativamente nella giustapposizione dei brani, nell'uso delle tecniche di scracthing e di rap, dando vita attraverso un'abilità molto manuale, a nuovi ritmi. Il giradischi ed il mixer diventeranno a tutti gli effetti dei nuovi strumenti musicali. Per rendersi conto come questo sia ancora oggi significativo, basta notare, che allo stato attuale, in un periodo nel quale dominano i supporti digitali, le vendite dei giradischi professionali superino come numero quelle delle chitarre elettriche. Non solo piatti e mixer, diventano un vero e proprio strumento musicale, l'insieme del sound system, questo anche derivato dalla tradizione della musica giamaicana, assurgono ad elemento fondamentale di quelle nascenti sonorità, creando le premesse concettuali e pratiche, all'idea di un uso positivo delle tecnologie nella musica di consumo. Sarebbe lungo avventurarsi in una cronistoria dei nuovi strumenti musicali elettronici. Cito solamente un dato: i sintetizzatori analogici già esistevano da tempo, ma basta rilevare che nella metà degli anni settanta un Moog 3 costasse ancora oltre 10.000 $ per comprendere come i supporti tecnologici fossero a quel tempo accessibili solamente a pochi ricchi produttori discografici e ai grandi studi delle etichette maggiori. Fu un musicista di origini italiane Giorgio Moroder, uno dei pionieri su altri versanti, sempre fra metà e fine anni settanta, a sperimentare le prime sonorità sintetiche su ritmi dance, in un periodo poco esplorato, anche dalla critica, che influenzerà tantissimo, invece, tutti i precursori dell'house americana, che continuamente citano l'Italia e la cosidetta euro-disco fra i loro primi modelli. A Detroit l'italo-disco sarà conosciuta semplicemente come 'progressive', parallelamente al fenomeno del synth-pop e durante quegli anni non era atipico ritrovare quelle sonorità assieme alla nascente new wawe più elettronica, assieme al funk di George Clinton e perfino al soul di provenienza Motown. I Depeche Mode, gli ABC, assieme agli Human League, sono solo alcune delle band europee che nei primi anni ottanta hanno costituito ulteriori riferimenti di partenza, precedenti alle prime sonorità house-techno, così come dall'altra parte del globo assunsero alla stessa funzione i giapponesi della Yellow Magic Orchestra. Le influenze si intrecciavano, rimbalzavano da una parte e l'altra del pianeta, anche se Detroit e Chicago, in particolare, erano i principali fulcri su cui erano imperniate quelle prime intrusioni elettroniche nelle musiche di consumo. Nel 1983 la Yamaha lanciò sul mercato la prima implementazione della tecnologia a sintesi di frequenza per il mercato di massa, la tastiera DX7, che con una tiratura di oltre 200.000 unità vendute, supererà di dieci volte le vendite di ogni altro sintetizzatore mai prodotto. Un mini moog analogico in quegli anni inizierà ad essere abbordabile da qualsiasi musicista, più o meno allo stesso prezzo di una normale tastiera. L'house americano non nasce come un fenomeno elitario, basta leggere le cronache di quegli anni, al contrario, ha una forte connotazione di classe ed è permeato completamente dalla cultura della gente di colore. A Detroit, città dalle forti contraddizioni sociali, patria dell'industria automobilistica. si affermeranno le prime figure di dj tipicamente house, genere conosciuto anche come Detroit Techno. Ricordiamo alcuni nomi: Kevin Saunderson, Derrick May, Juan Atkins. Jeff Mills, soprattutto, che inizierà ad usare un registratore portatile quattro tracce, con campionamenti e basi molto artigianali, portando così l'attitudine dell'hip hop nella dance music. E poi nomi come Carl Craig, Blake Baxter, Todd Terry a New York. La fama di questi dj e di un nuovo suono rimbalzerà velocemente nel Regno Unito, che sempre ha prontamente raccolto le energie prodotte dai nuovi movimenti musicali facendole poi diventare fenomeni ancora più consistenti. Un nuovo sintetizzatore, attorno la metà degli anni ottanta, attirerà le attenzioni di dj e produttori, il suo nome è Roland TB 303: ancora oggi è usata. La 303 fu originariamente venduta come un generatore di bassi per accompagnare musicisti solisti ma il suono che i dj riuscirono ad elaborare usando quel nuovo strumento non aveva niente in comune con un normale basso suonato, dava l'idea, piuttosto, di qualcosa di psichedelico e un po' allucinato. Da quei suoni prese vita il genere Acid, una variante del Chicago house: siamo arrivati già al 1987, il successo di massa di queste sonorità è inarrestabile e passerà dalle discoteche di Ibiza a club come lo Shoom e lo Spectrum. L'estate del 1987 sarà ricordata come The Summer Of Love, con tutto il suo carico di hype, di eccitazione, soprattutto mediatica, provocato anche dalla contiguità di quelle sonorità con la diffusione delle nuove sostanze empatiche illegali. La scena muterà e si sposterà dopo breve tempo da quei club in spazi aperti, spesso dismessi, dando vita alla scena dei warehouse party e dei rave. Quella sovraesposizione forzata non poteva durare all'infinito, già nel 1991 la scena si trasformerà ancora e la musica tenderà a ritornare ad una integrità maggiormente underground. Compariranno all'orizzonte nomi nuovi, giovani dj come Richie Hawtin, e si affermeranno etichette come la Plus 8 e Underground Resistence, autonome per scelta dalle influenze delle majors. L'uso sempre più consueto dei campionatori, nati anch'essi in principio per svolgere altre funzioni, fungere cioè come emulatori di suoni reali, assieme ai sequencer, permette ai dj di riprodurre in studio quello che normalmente hanno sempre fatto in tempo reale: cogliere frammenti, destrutturarli, rieditarli, riprodurli e modificarli, manipolandoli a partire da altre basi, mettendoli in relazione con altro, spezzando i ritmi, adeguando i battiti per minuto, mettendo il tutto nella giusta sequenza. La percezione del tempo nel concepimento di un pezzo avrà la caratteristica di diversi frammenti ricuciti in qualcosa d'inedito, secondo moduli di suoni giustapposti e ripetuti opportunamente.
Le premesse perché l'elettronica entrasse a far parte di scenari più quotidiani, già ci sono tutte a metà degli anni novanta. Ambiti provenienti da altre esperienze, sotto la luce dei sommovimenti prodotti da quelle sonorità, prendono nuove direzioni: penso alle sperimentazioni abstract hip hop, a nuove formule derivate dal jazz, penso all'esperienza del trip hop, alla cosiddetta intelligent techno, alla nuova ambient, che nascono, narcoticamente nelle linee ritmiche o nelle atmosfere come antidoti dei ritmi sempre più sostenuti, penso soprattutto ai ritmi spezzati del drum and bass, che interpretando a suo modo, ancora una volta la tradizione hip hop, digitalizza, velocizza e frammenta tutto, in un procedimento compositivo mutuato dalle stesse tecniche di campionamento digitale. Ma non è finita, potrei impiegare lo stesso tempo e più, solo per parlare dei generi più recenti, di movimenti che non sempre sono semplici filiazioni dirette di quello che c'è stato prima: il big beat e la nuova ondata chemicals, il garage inglese, breakbeat e breakstep, questo solo per rimanere all'interno delle scene più ritmiche e senza toccare i versanti maggiormente legati ad approcci concettualmente sofisticati o mai del tutto sopite tentazioni di natura pop-mainstream.

Il passaggio dalle nuove macchine per produrre musica al digitale è di questi ultimissimi anni, reso possibile soprattutto dai continui avanzamenti delle tecnologie informatiche mentre precedentemente il limite maggiore per esprimersi in campo musicale, risiedeva proprio nella mancanza di attrezzature tecnologiche adeguate a costi accessibili. La sempre maggiore capacità di calcolo dei personal computer, il costo sempre meno proibitivo, se non semplicissimo, rendono più facile e disponibile ad un maggior numero di persone l'accesso alle gioie della produzione. Molti nuovi software musicali, riducono, proprio per loro concezione, la distanza tra addetti ai lavori ed utenti casalinghi, abbassando al minimo le conoscenze tecniche per farli funzionare ed esaltando al contempo l'istinto e la conoscenza musicale. E' il caso di Acid, un software molto intuitivo, che viene usato soprattutto in una prima fase di stesura delle tracce, o di Reason. Ogni dj-produttore secondo attitudine e bisogni assembla il proprio set di strumenti-programmi sempre più attento alle mutazioni e in sintonia con le nuove evoluzioni tecnologiche. Di fatto, quello musicale, è il campo di sperimentazione, insieme a quello dei giochi, dove si realizzano maggiormente le ibridazioni fra corpi e macchine nel normale agire delle pratiche quotidiane. Tutto ciò continuerà ad avere enorme influenza sulla musica dei prossimi anni, e non solo sulla musica. Cercare soluzioni nuove, e che questo sia alla portata di molti. Credo che dovremmo augurarcelo.

Aurelio Cianciotta